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venerdì 6 giugno 2014

Miguilim, João Guimarães Rosa

Miguilim

João Guimarães Rosa

Feltrinelli (1994)





La storia di Miguilim che João Guimarães Rosa ci narra è, come ci dice l’autore, una storia archetipa, è La storia.
Miguilim è innanzitutto un romanzo di formazione, sebbene lo scrittore assegni all’esito di questa fiaba moderna un ruolo speciale: l’autore ci narra l’evoluzione, la metamorfosi di un delicatissimo bambino che da ultimo giungerà ad accogliere, piuttosto che scavalcare evidenziando così il suo superamento, la fragilità implicita all’innocenza dell’infanzia. Essa dunque non si rivela per Miguilim una fase da cui congedarsi ma da integrare nel proprio equilibrio emotivo ed imparare così ad esprimere.

Il libro è però anche, e soprattutto vorrei dire, una riflessione sul sentimento della nostalgia. Non si tratta tuttavia di una nostalgia rivolta al passato e suscitata dallo scorrere del tempo: Minguilim infatti ancora abita l’eterno presente dell’infanzia ed è dunque troppo piccolo per avere un trascorso di cui avvertire mancanza. Il tipo di nostalgia su cui il racconto ci spinge a riflettere è nostalgia che si cala nello spazio e che da un lato si rivolge verso le cose che Minguilim avverte lontane, inaccessibili e remote;

“La lucciola. A Mamma piaceva, parlava, carezzando i capelli di Miguilim. “Il loro luccicare è un segno d’amore...” Un cavallo si spaventava, con paura che la lucciola desse fuoco alla notte. Un altro cavallo scalpitava, infastidito dall’immobilità. Una lucciola si spegne, scendendo in fondo al mare. “Mamma, che cosa è il mare, Mamma?”. Il mare era lontano, molto lontano di lì, specie di lago enorme, una quantità d’acqua senza fine, anche Mamma non aveva mai visto il mare, sospirava. “Allora, Mamma mare è quello che si ha nostalgia?” Miguilim non domandava altro.”

Dall’altro, la nostalgia di Miguilim è rivolta alle persone a lui vicine e che frequentano la sua quotidianità: i genitori, il fratellino, lo zio, gli amici, di cui il bambino non riesce a decifrare i gesti, l’affetto, la distanza, la separatezza. Miguilim, alla ricerca costante di un codice che consenta al suo desiderio d’amore di comunicare con l’indecifrabile mondo dei grandi e che scava mancanze dentro al suo piccolo cuore, si scontra ogni volta con l’inattingibilità dello scopo e che egli così trasforma nella propria essenziale inadeguatezza. L’autore riversa metaforicamente tale impossibilità in un deficit visivo che sembra condannare Miguilim ad una precoce miopia. La miopia costringe Minguilim a percepire le cose e le persone con contorni imprecisi, sfuocati e irrimediabilmente sfuggenti fino al giorno in cui, per caso, a Miguilim viene prestato un paio d’occhiali.

Improvvisamente il mondo riacquista i suoi contorni. Miguilim è ora pronto a partire: per un paio d’occhiali nuovi e della misura giusta; e per congedarsi dai genitori, dallo zio, dagli amici ma non dalla sua inadeguatezza, dalla mancanza e da una nostalgia per ciò che gli sta vicino e lontano che il bambino non saprà mai spiegare e spiegarsi bene. Potrà solo raccontarne i toni attraverso storie poiché, sembra dirci l’autore, la mancanza può essere suturata solo nel movimento infinito del racconto che costruiamo su di noi, sulla nostra vita, senza però tuttavia essere mai definitivamente richiusa.

“Siarlinda raccontò favole. Della Ragazza e dell’Orco, del Pappagallo Dorato che era un Principe, del Re dei Pesci, di Cenerentola, del Re della Foresta. Raccontò storie di fantasmi, che erano le migliori, per dare i brividi. Miguilim all’improvviso cominciò a raccontare storie tratte dalla sua propria testa: una del Bue che voleva insegnare un segreto al Bovaro, un’altra del Cagnolino che non lo volevano in nessuna casa, andava di vereda in vereda, invocando compassione. Quelle favole interessavano. Mamma disse che Miguilim era molto intelligente”.

Qui potete trovare la recensione sul mio canale You Tube: Miguilim, João Guimarães Rosa

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